Origine e differenza tra Harakiri e Seppuku

In occidente il termini harakiri, e in minor modo seppuku, sono comunemente sinonimo di suicidio, ma in pochi conoscono le sottili differenze tra i due e la storia di questo gesto estremo.

L’occidente, figlio di una forte formazione cattolica che condanna aspramente il suicidio, ha sempre guardato con stupore e incredulità a questa “barbarica” usanza. Dietro a questa esiste però una profonda storia che affonda le radici nel bushidō e nella morte onorevole.

Le differenze

Iniziamo sin da subito a dire che i termini di “seppuku” e “harakiri” sono sinonimi, hanno il medesimo significato ma dietro il loro uso si riscontrano sfumature diverse.

Seppuku è scritto con due ideogrammi 切腹せっぷく, il primo significa “taglio” mentre il secondo “ventre”. Il significato è letteralmente il taglio del proprio ventre. Il termine harakiri si scrive invece 腹切はらきり, utilizza quindi gli stessi ideogrammi ma invertiti. I due termini risultano però foneticamente diversi poichè “seppuku” utilizza la lettura onyomi degli ideogrammi, ovvero quella di origine cinese, mentre “harakiri” segue quella giapponese.
A questa prima differenza meramente linguistica, si aggiunge il differente contesto dove si utilizzavano i due termini; “seppuku”, seguendo la lettura cinese, era una forma più colta e quindi destinata principalmente allo scritto. Al contrario “harakiri” era la forma utilizzata comunemente nella lingua parlata, considerata quindi più “rozza”.

Una terza differenza era la modalità nelle quale avveniva. L’harakiri si lega al suicidio nel campo di battaglia, in solitudine e senza nessun particolare rituale preparatorio. Il seppuku invece faceva parte di un complesso e significativo rituale che accompagnava il samurai ad infliggersi il colpo mortale.

L’origine

Il primo caso di seppuku di cui si ha certezza è quello di Minamoto no Yorimasa durante la battaglia di Uji, nel 1180. Inizialmente però non vi era un chiaro rituale, ma si ricorreva all’estremo gesto per non cadere nelle mani del nemico dopo una sconfitta. Il complesso rito venne formalizzato soltanto nel periodo Edo, diventando una ragida e complessa cerimonia.

Le ragioni del gesto

Le motivazioni che portavano il samurai all’estremo gesto erano varie, ma in generale miravano sempre a mantenere intatto il proprio onore. Tra quelle principali c’erano:

  1. Junshi 殉死: il suicidio che seguiva la morte del proprio signore.
  2. Funshi 憤死: per esprimere la propria indignazione verso una situazione.
  3. Kanshi 諫死: come ammonimento e rimprovero verso il proprio signore.
  4. Espiare delle azioni disonorevoli.
  5. Evitare la cattura.
  6. Come pena capitale per determinati reati commessi (periodo Edo).

A queste si aggiungono altri casi particolari; ad esempio poteva essere posto come condizione al daimyō per un accordo di pace.

Il rituale

Come accennato in precedenza il rituale variò e si formalizzò sempre più nel tempo, diventando intorno al XVII secolo una cerimonia che constava di precise regole, figure e passaggi.

Il seppuku si teneva generalmente in un giardino o in un tempio buddista (non shintoista, dove il sangue la morte è simbolo di kegare). Il samurai si preparava facendo un freddo bagno purificatore e mangiando del cibo a lui gradito e del sake servito sul sanbō 三方さんぼう, un particolare vassoio. Quindi vestiva un kimono bianco, lo shini-shōzoku 装束しょうぞく.

Il Samurai era seduto nella tradizionale posizione di seiza in modo da cadere dignitosamente in avanti dopo la morte. Accanto a lui era presente il kaishakunin, colui che avrebbe decapitato il samurai dopo che si fosse inferto il colpo.

Kaishakunin 介錯人

La sua figura era molto importante e delicata poichè la sua funzione era quella di alleviare il dolore al samurai. Inoltre non doveva tagliare interamente la testa, ma infliggere un fendente che ne recidesse solo la parte posteriore; sarebbe stato poco onorevole per il samurai e per i presenti che la testa rotolasse. Il tagliare lasciando un lembo di pelle si chiamava dakikubi, letteralmente “abbracciare il collo”.
Il kaishakunin doveva quindi essere un abile spadaccino ed era il samurai che lo sceglieva. Questi poteva rifiutare una prima volta, ma se il samurai insiteva doveva accettare.
Questo ruolo era scomodo poiche era ritenuto normale infliggere il colpo correttamente, ma disdicevole sbagliarlo.

Tra i gesti della cerimonia c’era il componimento di un ultimo haiku, una forma di poesia giapponese, dove esprimere gli ultimi pensieri in versi. Questi erano generalmente rivolti al tema della morte o della caducità della vita.

Ognuno di questi passaggi aveva movimenti precisi, pregni di un profondo significato che sottolineava il solenne momento.

Nel momento finale della cerimonia ll samurai sfilava la parte esterna del kimono, e impugnato il tantō, pugnale dalla lama inferiore a 30 cm, e si infliggeva il colpo all’addome. Al posto del tantō si poteva utilizzare anche il wakizashi, una lama più lunga. Il coltello veniva impugnato dalla lama dopo averla avvolta con un panno per non perdere la presa e si proseguiva infliggendosi un colpo da sinistra a destra, quindi verso l’alto. Comunque il kaishakunin avrebbe provveduto immediatamente alla decapitazione per prevenire la smorfia di dolore del samurai.

È importante sottolineare come il taglio al ventre non fosse un punto casuale. Si riteneva infatti che lo spirito del samurai si trovasse proprio nell’addome.

A seguito della morte del samurai sanbo e pugnale sarebbero stati gettati poichè contaminati dalla morte.

Nel caso in cui il Samurai fosse troppo giovane o si pensava fosse pericoloso dargli una arma, quest’ultima veniva sostituita da un ventaglio. Il samurai avrebbe così simulato il colpo al ventre impugnando il ventaglio e il kaishakunin avrebbe provveduto a infliggere il vero colpo mortale.

Jūmonji giri

Esisteva comunque una variante del seppuku, il jūmonji giri 十文字じゅうもんじり, letteralmente taglio a croce, in cui il samurai si infliggeva un secondo taglio verticale senza però il kaishakunin che metteva velocemenre fine alle sofferenze. Il samurai che decideva di praticare il jūmonji giri avrebbe dovuto sopportare in silenzio la sofferenza fino alla morte.

Altri termini per il suicidio

Ai termini di seppuku e harakiri si accostano però altre parole per lo stesso gesto:

  • L’oibara 追腹おいばら, il suicidio che segue la morte del proprio signore (o maestro) dove il primo kanji significa appunto “seguire”.
  • Lo Tsumebara 詰腹つめばら, l’harakiri a seguito di gravi inadempienze nel compiti assegnati o come segno di responsabilità per un grave errore fatto. Tsume significa “biasimo, rimprovero”.
  • il Sashibara 指腹さしばら, il gesto di suicidarsi dopo aver nominato qualcuno e sfidato a fare lo stesso. L’altra persona avrebbe dovuto fare a sua volto seppuku per non perdere l’onore. Sashi significa infatti “indicare”.

Jigai – il suicidio femminile

Un ulteriore termine è jigai, con il quale si indica impropriamente l’harakiri femminile. Il termine significa “suicidio” e la sua interpretazione come harakiri femminile è invero data da un’interpretazione occidentale fatta da Lafcadio Hearn a fine ‘800. Tale traduzione è però errata come recentemente evidenziato da Joshua S. Mostow. Comunque il gesto ha ispirato la Madama Butterfly di Puccini e il suicidio di ciociosan.

Il rituale era differente da quello degli uomini; la donna si legava dapprima insieme le ginocchia per far trovare il corpo in una posizione composta, quindi si tagliava la gola con il tantō.

Il gesto era praticato per preservare il proprio onore, ad esempio prevenenendo lo stupro dopo una sconfitta militare e conseguente cattura. I vincitori che entravano nella stanza della donna l’avrebbero così trovata da sola di spalle già deceduta.
Inoltre questa capitolazione spesso non si limitava alle sole donne, ma anche ai bambini di entrambi i sessi per evitare cattura e deportazione.

Ultimi casi di seppuku

Il suicidio rituale venne abolito come pena capitale dal 1873, parte delle riforme del processo di modernizzazione instaurato dalla restaurazione Meiji. Si contano comunque numerosi casi di seppuku in tutto il ‘900 fino ai giorni nostri; tra i più famosi quello pubblico dello scrittore Yukio Mishima negli anni ’70 avvenuto presso il quartier generale delle forze di difesa come forma di protesta e incoraggiamento al colpo di stato.

Ancor più recente il caso di Isao Inokuma, judoka olimpico e amministratore della Tokai Kenetsu che nel 2001 si suicidò con seppuku per le gravi perdite della sua azienda.

Il seppuku nella cultura popolare

Il seppuku è di comune riferimento in molte opere letterarie, teatrali o cinematografiche; dalla già citata “Madame Butterfly” di Puccini, al film “L’ultimo samurai”.

Il caso di seppuku probabilmente più famoso riguarda la storia dei 47 Ronin che agli inizi del XVIII secolo vendicarono il proprio signore che era stato costretto al seppuku per poi suicidarsi a loro volta. La loro storia ispirò la letteratura giapponese, opere teatrali (la famosa Chūshingura 忠臣蔵) e finanche diversi film in epoca recente.

Considerazioni finali

L’occidente con l’influenza della morale cristiana ha spesso fortemente criticato e condannato questo gesto, ma il giudizio è sempre una valutazione pericolosa. Il seppuku rappresentava la morte onorevole, ma nelle sue diverse sfaccettature poteva diventare il massimo sacrificio per una causa ideologica, ricordando in qualche modo il kamikaze. Rinunciare alla propia vita come silenzioso grido di protesta per un futuro cambiamento.
Con questa considerazione non si vuole giustificare il gesto, ma invitare il lettore a cercare di comprendere il significato ultimo del rito, che contestualizzato nel luogo e nel tempo merita certamente rispetto e un’attenta riflessione.

Fonti:
wikipedia
geishaworld.fandom.com
youtube.com
win.net
gianfrancobertagni.it (pdf)