Il Mabiki: l’infanticidio nel Giappone antico

Nel Giappone del periodo Edo l’infanticidio era tristemente comune nelle famiglie più povere e prendeva il nome di Mabiki. Questa pratica non è esclusiva del Giappone ed era motivata da fattori economici e sociali che portarono tanto alla sua diffusione quanto poi alla sua scomparsa.
Ma perché era così diffuso?

L’origine del mabiki

Il termini mabiki 間引き significa letteralmente “diradamento” e si prese in prestito dal mondo della coltivazione. Nelle scienze agrarie indica la rimozione di alcune piante, o parti di piante, per fare spazio alla crescita di altre. Allo stesso modo il principale motivo del mabiki era dar spazio ad altri figli.

Motivi economici

Il mabiki si diffuse soprattutto nella prima parte del periodo Edo (1603 d.C. – 1868 d.C.), specialmente a sud e nel nord-est del Giappone. Il fattore economico era forse quello che maggiormente gravava nella scelta. Crescere un figlio per una famiglia contadina era un importante sforzo di tempo e denaro e molte non potevano realmente permettersi di badare e nutrire una vasta prole.
Avere tanti figli si sarebbe tradotto in minor cibo per tutti e di conseguenza maggiori rischi per tutti. La scelta del mabiki fu così in realtà una scelta paradossalmente di amore genitoriale verso gli altri figli e verso la famiglia.

Motivi sociali

Inoltre proprio la precedenza da dare alla famiglia nel suo insieme ci comunica l’importanza del gruppo sociale nel Giappone di ieri e di oggi. Se in occidente si tende a lottare per il bene dell’individuo, nella società giapponese tutti gli sforzi si indirizzano per il bene del gruppo, sia esso da rispecchiarsi nella famiglia, nel villaggio o nell’azienda. Il gruppo e la sua coesione sono più importanti del singolo. Questo non vuol dire che ancora oggi esista il mabiki, non è più una pratica necessaria, ma rimane ancora molto forte il senso del sacrificio del singolo per la comunità.

Avere un figlio non riguardava solo la famiglia, ma l’intero villaggio. Eventi importanti della vita del bambino venivano scanditi con doni da tutta la comunità e avere tanti figli si traduceva in un impegno che gravava anche sulle famiglie vicine.

Una famiglia contadina aveva così due o tre figli al massimo, numero che poteva aumentare se questa possedeva un vasto appezzamento di terra ed era necessaria una maggiore forza lavoro.

Motivi familiari

Al motivo economico si aggiungeva anche un motivo legato alla prosecuzione della famiglia e della proprietà familiare. Per quanto possa sembrare inizialmente una contraddizione, avere troppi figli poteva minare la stabilità della futura famiglia. Era necessario valutare sia i possibili rischi dati da una disputa futura tra i discendenti e quello che avrebbe comportato per l’unione familiare, che l’importanza ed il peso sociale della famiglia nella comunità e, non meno importante, la reazione degli antenati di fronte a un declino di quanto da loro costruito.

In alcune aree del Giappone la pratica del mabiki era meno diffusa, ma questo si traduceva nel vendere i neonati o iniziarli in futuro al mondo della prostituzione. Questa scelta era molto criticata e si riteneva molto più morale e sano scegliere di far crescere pochi figli in salute che dare a tutti un futuro incerto e di povertà.
La responsabilità della scelta si ripercuoteva così sulla famiglia stessa, sugli antenati, sui discendenti e sulla comunità tutta.

La leggenda di Kakkio

Il senso del dovere verso la comunità e la comune predilezione per il bene della famiglia rispetto a quella del singolo si riscontra anche in una famosa storia cinese famosa in Giappone: la leggenda di Guo Ju (Kakkio in giapponese), massimo esempio di devozione filiale.

Kakkio che si prendeva cura della moglie, della madre anziana e del figlio piccolo. Erano poveri e avevano poco cibo per tutti e quando la nonna si ammalò non ebbero il denaro per sopperire alle sue cure mediche. La coppia decise di seppellire il figlio per poter conservare del cibo per la madre perché il suo primo dovere di figlio era innanzitutto verso di lei. Con grande dolore, Kakkio iniziò a scavare una fossa, ma presto colpì qualcosa con la sua zappa. Scoprirono una pentola d’oro con inciso il suo nome. Riuscirono così a vendere la pentola e a comprare medicine e cibo per la madre, mantenendo il figlio.

La scelta morale

La scelta di praticare il mabiki avveniva generalmente immediatamente dopo il parto. È importante non cadere nell’errore di considerare i genitori giapponesi del periodo Edo insensibili o meno amorevoli dei genitori odierni. Le condizioni e la società erano profondamente diversi così come la concezione del concetto stesso di individuo. Secondo il pensiero comune, il neonato non era una persona finché non veniva accettato dalla famiglia, la sua morte significava rimandarlo semplicemente nel mondo degli spiriti. L’individuo non era ancora considerabile tale, in modo non dissimilare da chi oggi, essendo favorevole all’aborto, non considera il feto già come un essere umano.

Tengo a precisare che la società giapponese era molto sensibile e rispettosa della vita e di ogni essere vivente. Non era raro trovare piccoli altari dedicati agli insetti uccisi per l’uso dei pesticidi o ai bachi da seta uccisi durante la sericoltura.
Il mabiki non era una pratica accettata a cuor leggero, ma una scelta dolorosa di non accogliere un neonato e non farlo diventare un individuo. Una volta accettato il nascituro, il figliolo era amato, rispettato e difeso allo stesso modo di come si possa immaginare in una qualunque famiglia al mondo.

I documenti e i registri che sono stati ritrovati non specificano mai direttamente la morte di un neonato, ma si limitavano a censire la popolazione di un determinato luogo. Solo attraverso scritti personali ed un profondo studio dell’andamento demografico si è potuto stimare come la pratica fosse diffusa nel primo periodo Tokugawa per poi scomparire lentamente.

Chi veniva scelto

La pratica era spesso legata al sesso del nascituro. Si prediligeva avere figli maschi rispetto a figlie femmine poiché i primi potevano essere più di supporto alla famiglia e alla comunità in futuro. Ma comunque nel caso in cui fossero già presenti un sufficiente numero di figli maschi, anche loro sarebbero andati incontro alla triste pratica.

Era poi una credenza comune che i parti gemellari fossero disdicevoli perché paragonabili ad un parto animale. Si pensava che questi parti fossero frutto di tradimenti della donna o addirittura che i neonati fossero equiparabili ad animali.

Oggetto del mabiki erano anche i nati prematuri proprio per la loro fragilità e rischi futuri, i nati con deformità o ancora chi semplicemente nasceva in un periodo di difficoltà per la comunità o per la famiglia.

La pratica non era esclusivamente perpetuata da famiglie povere, era invece comune in ogni famiglia quando si presentavano le condizioni finora addotte. Avere un figlio era un atto di amore ma anche un investimento.

Come avveniva l’infanticidio

La persona che generalmente si occupava della pratica era la madre stessa o colei che eventualmente l’aveva assistita durante il parto, generalmente la suocera. L’uomo non presenziava mai al momento della nascita, ne rimaneva anzi distante. Questo era collegato anche alla concezione di kegare, il senso dell’impuro secondo il credo shintoista; tutto quello che veniva a contatto con il sangue diventava impuro e andava ripulito e purificato.

La decisione in merito all’attuazione o meno della pratica era comunque condivisa dai genitori e spesso avallata dai nonni.

Nella pratica il neonato veniva soffocato con dei panni subito dopo la nascita, rispedendo così il piccolo nel mondo degli spiriti. In alcuni casi poteva invece essere semplicemente abbandonato e morire di stenti o lasciato vicino la dimora di persone più facoltose. Ma questi ultimi casi erano più rari e non rientrano strettamente nella pratica del mabiki.

Dal punto di vista religioso, non vi erano riti per gli spiriti dei bambini morti. Lo spirito del bambino veniva subito dimenticato perchè si pensava ritornasse semplicemente indietro. Non veniva scelto un kaimyō かいみょう (nome postumo), né tantomeno veniva realizzata alcuna tavoletta da porre sugli altari dedicati agli antenati. L’unica cosa che la madre poteva fare era affidarlo al bodhisattva Jizō ぞう, sperando potesse rinascere e avere un’esistenza migliore.

La fine del Mabiki

La pratica dell’infanticidio non finì per fattori morali, o almeno non furono questi i motivi alla base del cambiamento. Il Giappone vide una grande crescita demografica nei secoli passati che proprio a metà dell’800 si fermò bruscamente. Il numero dei nuovi nati non riusciva infatti a compensare il numero di morti causate da eventi naturali o epidemie.
Il governo decise allora di combattere questa pratica nella speranza di ridare nuova spinta giovane ad un Giappone che stava lentamente vedendo andare in crisi il proprio sistema economico e sociale.

Il processo per invertire questa tendenza non fu né immediato né semplice. In particolar modo quando per secoli si era ritenuto immorale avere numerosi figli, equiparando la pratica a quella degli animali. Il mabiki venne comunque sempre più ostracizzato sia dal governo che dalle comunità buddiste, al contrario di quel che accadeva a inizio periodo Tokugawa.

Vennero incentivati i matrimoni attraverso esenzioni fiscali e agevolazioni, vietata ogni forma di controllo della nascite e si istituì l’obbligo di redigere dei gistri di maternità dove segnalare tutte le gestazioni, le nascite e le eventuali cause di morte. Casualmente si rilevarono un’impennata di morti “spontanee” o di feti nati morti che gli studiosi interpretano come il continuamento della pratica del mabiki sotto mentite spoglie.

Con il periodo Meiji nacque il mito del kazokukokka ぞく国家こっか, dove l’ideale di uno stato potente era connesso a quello di una famiglia patriarcale. La famiglia prolifica divenne così sinonimo di produttività della Nazione.
Le donne che praticavano il mabiki vennero finanche rappresentate come demoni o mostri. L’opposto di quanto era accaduto due secoli prima.

Anche l’opinione pubblica occidentale e l’importanza di mostrare al mondo un Giappone evoluto e civile furono un importante elemento per la fine degli infanticidi in Giappone a fine ‘800. Processo che comunque era già in atto.

Conclusione

È difficile tracciare chiaramente una stima di quanto sia cambiata la pratica ma si è abbastanza certi che questa sia continuata in alcune zone del Giappone fino alla fine degli anni 40′ del ‘900, quando venne poi introdotta la legge sull’aborto (1948). Quest’ultima fu promulgata anche in relazione a numeri infanticidi che si erano verificati i tutto il Giappone negli ospedali, dei quali un caso famoso fu quello di Miyuki Ishikawa.

Con l’introduzione e diffusione degli anticoncezionali in numero di nascite diminuì maggiormente e oggi il Giappone vive una difficile condizione di invecchiamento della popolazione. Gli ultimi decenni vedono infatti una lenta e costante decrescita demografica, passando dai 128 milioni di abitanti del 2010 ai 125 del 2021.

Inoltre dagli anni ’70 è nato il mizukokuyō 水子供養みずこくよう, un rituale per placare gli spiriti dei bambini abortiti legato proprio ai jizō e che ancora oggi è diffuso.

Chi volesse approfondire l’argomento consiglio “Mabiki” libro dello studioso Fabian Drixler che approfondisce il tema dell’infanticidio e della variazione demografica del Giappone antico (solo in lingua inglese).

Fonti:
Wikipedia
viaggiatoriignoranti.it
fujiarts.com
tandfonline.com
jstor.org
Amazon (MABIKI)
youtube.com
refilao.it