Nella società odierna siamo costantemente bombardati da argomenti in merito alla sessualità e ancor più a dibattiti sull’dentità sessuale. Anche nel Giappone moderno non mancano le lotte di genere e grandi comunità lgbtq+ che, come in occidente, cercano di far sentire la loro voce e far rispettare i propri diritti.
Forse però non tutti ricordano che nel Giappone dell’epoca Edo esisteva una importante figura sociale che rappresentava un vero e proprio terzo genere: il wakashū 若衆.
Con questo termine si indicava un ragazzino di sesso maschile in età adolescenziale che era oggetto di desiderio sessuale sia per gli uomini che per le donne.
L’origine del wakashū
Il termine wakashū è composto da due ideogrammi waka 若 (giovane) e shū 衆 (persona, spesso usato in forma onorifica o rispettosa, sonkeigo o kenjōgo), indicando appunto un individuo in età puberale, tra i 7 e i 18 anni.
L’eta del wakashū non era un elemento fondamentale perchè diventasse oggetto del desiderio altrui, piuttosto l’apparire adolescenziale era oggetto di attenzione sessuale. Non mancano casi di adulti o addirittura anziani che continuavano a comportarsi e vestirsi da wakashū nel mondo della prostituzione maschile dell’antico Giappone.
Il periodo durava in genere fino alla maggiore età, intorno ai 18 anni con la celebrazione del genpuku 元服. Talvolta questa cerimonia si ritardava fino ai 25 anni proprio per prolungare il periodo nel quale il ragazzo rimaneva legato al suo mentore.
L’acconciatura e il vestiario
Il wakashū aveva un taglio di capelli ed un vestiario ben preciso. La testa era parzialmente rasata alla sommita (maegami) con dei rigonfiamenti nella parte anteriore e ai lati. Il motivo di questa particolare acconciatura è che veniva considerata più attraente dagli uomini (de gustibus non disputandum est).
Generalmente il ragazzo indossava un kimono a maniche aperte, il wakiake 脇開け, o nelle famiglie più abbienti il furisode. Questo kimono era indossato dalle giovani ragazze nubili, e rappresentava nella società giapponese purezza e giovinezza. Si riconosce facilmente per la lunghezza delle maniche che arrivano fino a 107 cm! Ancora oggi è possibile ammirare le ragazze vestire questo tipo di kimono durante gli eventi più formali.
Il wakashū e il samurai
Il wakashū accompagnava principalmente un samurai, creando con lui un rapporto che non era solamente di tipo sessuale. Il guerriero si sarebbe occupato dell’educazione e della crescita del ragazzo fino alla sua maggiore età, insegnandogli i valori di lealtà e rispetto caratteristici del bushidō. Questo rapporto prende il nome di wakashūdō.
Nella società del tempo divenire wakashū era normale e socialmente accettato. Al contrario era considerato atipico un samurai che non si accompagnasse da nessuno.
Il samurai che instaurava questo rapporto con il ragazzo prendeva il nome di nenja 念者, termine che significa letteralmente “persona affettuosa” o “amatore”. Questi diventava tutore del ragazzo durante tutta la sua adolescenza, spesso instradandolo per diventare egli stesso un samurai.
Il loro rapporto spesso perdurava nel tempo e terminava quando il ragazzo celebrava il genpuku, diventando così maggiorenne. Possibilmente lui stesso da quel momento avrebbe cominciato a intraprendere la strada del samurai ed avere a sua volta un wakashū negli anni successivi.
Il processo che porta ad accompagnarsi ad un wakashū è particolarmente lento e il rapporto è cercato reciprocamente. Generalmente il ragazzo “testa” il potenziale nenja per almeno cinque anni e solo dopo aver accettato di iniziare il wakashūdō può legarsi a lui fino alla maggiore età.
Il legame tra i due non vietava però al ragazzo di avere esperienze sessuali anche con donne. In questo caso però il ragazzo aveva un ruolo dominante e non più sottomesso come nel rapporti con il suo mentore.
I monaci buddhisti e i chigo
Questa usanza non era esclusiva dei samurai, infatti anche i monaci buddisti potevano accompagnarsi con un wakashū, qui chiamato chigo 稚児 (Di cui abbiamo già parlato in occasione del Gion matsuri).
Le dinamiche del rapporto erano simile a quelle dello wakashūdō, ma in questo caso il monaco accoglieva in monastero il ragazzino sin da quando aveva appena cinque anni. Il suo rapporto con il nenja sarebbe comunque avvenuto solo al raggiungimento del periodo adolescenziale del bambino, diventando solo in quel momento chigo. Quest’ultimo era la rappresentazione della purezza, un “ragazzo divino”, e il suo rapporto con il nenja era simbolo di amore naturale e al contempo celeste, una forma di venerazione del buddha.
Il chigo imparava nel monastero anche le arti dell’intrattenimento; danzare, cantare, suonare uno strumento musicale (generalmente lo shamisen), comporre poesie e saper allietare l’ospite. La permanenza del ragazzo nel monastero continuava sino alla maggiore età, quando ogni vincolo generalmente si scioglieva.
Buddismo Shingon e Tendai
L’usanza dell’amore pederastico dei monaci ricorda quello di stampo ellenico e risale a ben prima dell’epoca dei samurai. Alcuni accenni si trovano già nel Kojiki (712), il sacro libro scintoista e primo testo scritto giapponese.
Secondo la tradizione però il primo monaco ad aver comiciato a intraprendere questi rapporti fu Kūkai (774-835), fondatore del buddismo tantrico Shingon. Secondo il monaco questo era parte integrante della pratica religiosa. Il monastero situato sul monte Koya, a sud di Ōsaka, fu fondato dallo stesso Kūkai e rappresentò fino all’epoca Edō il simbolo dell’amore maschile.
Altri esempi di rapporti omosessuali maschili nell’antico Giappone si trovano nel Tendai, scuole buddista fondata da Saichō, dove esisteva la massima “ichi chigo ni sannō“, ovvero “prima il chigo poi la devozione al Dio”.
Ritengo sia importante contestualizzare come la società nipponica del tempo non aveva nessuna limitazione morale verso i rapporti omosessuali ed era molto distante dalle regole comportamentali cristiane e dal modo di vivere la religiosità. Il rapporto con il chigo, rappresentazione di divinità in terra, era così al pari all’avvicinamento al divino stesso.
Le antiche storie che narrano dei chigo nei monasteri sono spesso costellate di morti tragiche come suicidi, assassini o malattie. La figura di questi adolescenti è ancora oggi motivo di ricerca e dibattito. Di certo si evince il contrasto tra quello che rappresentavano socialmente e le evidenze storiche del tempo che parlano di abusi e violenze.
Il wakashūdō nell’arte
Le testimonianze storiche di questi rapporti omosessuali maschili passano anche attraverso l’arte pittorica giapponese, il teatro e la letteratura.
La pittura
Sono numerose le xilografie che mostrano sia la vita quotidiana del wakashū che quella privata nei rapporti amorosi con entrambo i sessi. In particolare nello shunga 春画, l’antica pittura erotica giapponese, è possibile notare come venissero rappresentati con tratti più femminili delle stesse donne e spesso riconoscibili solo grazie alla spada che portavano con se o alla rasatura sul capo.
Le diverse rappresentazioni artistiche raccontano anche di una realtà legata alla prostituzione, fatto che in futuro sarà una delle cause della scomparsa del “terzo genere”.
La letteratura
Anche la letteratura è ricca di queste figure tanto da esistere anche un genere chiamato chigo monogatari 稚児物語 (monogatari significa racconto in giapponese) che tratta di vicende con protagonisti i wakashū o che in generale ne esalta il tipo di amore, lo shudō 衆道 (letteralmente “la via dei ragazzi”). Di quest’ultimo si trovano opere dedicate fino ai giorni nostri.
Taruho Inagaki, poeta del ‘900, scrisse nel suo libro “L’estetica dello shudō” che “solo membri della classe privilegiata potevano comprendere il piacere dello shudō” paraganonandolo alla bellezza del fior di ciliegio che ha un tempo limitato e sfiorisce brevemente.
Il teatro
Nel teatro giapponese kabuki non mancano rappresentazioni con personaggi wakashū o con wakashū in prima persona che recitavano le parti femminili delle opere. La recitazione teatrale era infatti vietata alle donne, bandite dai palcoscenici dal 1629 secondo le leggi promulgate al tempo per diminuire la prostituzione.
Il kabuki rappresentava l’arte teatrale popolare giapponese, più semplice e diretta rispetto all’antico e colto Noh. Il suo ambiente era così molto legato a quello del meretricio ed era frequente che sofisticati nobili o ricchi mercanti approfittassero dei servizi dei giovani ragazzi.
Al fine di diminuire il fenomeno nel 1652 il teatro fu vietato anche ai wakashū, così le parti femminili venivano interpretate solo da uomoni adulti, gli onnagata, i quali però finivano a loro volta per praticare la prostituzione.
Solo con la restaurazione Meiji e l’inizio dell’influenza occidentale e cristiana portò alla totale scomparsa della pratica del wakashudō così come dello stesso termine, oggi rimpiazzato da shonen 少年 o sinonimi che indicano i rapporti amorosi tra uomini.
Conclusione
In un mondo in continua frenetica evoluzione è importante sapersi fermare e guardare indietro per capire dove si sta andando.
Mi chiedo se il Giappone e i suoi stereotipi femminilli odierni caratterizzati dalla ricerca di modi gentili e adolescenziali, carnagione chiara e forme accennate siano in qualche modo ancora influenzati da questo atavico e oggi dimenticato “terzo genere”. Il passato e gli antichi costumi sociali sembrano mutare e si perdono agli occhi delle nuove generazioni, ma la società forse porta con se riminiscenze di antichi usi senza neanche rendersene conto.
Fonti:
Wikipedia
jstor.org
ranker.com
medium.com
Testi per approfondire: