I rapimenti nordcoreani di cittadini giapponesi

La situazione in cui attualmente si trova la Core del Nord è ampiamente conosciuta ai più; un paese che dalla fine della guerre di Corea di inizio anni’50 è vive sotto un duro regime dittatoriale. Le politiche del governo coreano non ricaddero unicamente sui propri cittadini, ma alcuni fatti in particolare riguardarono anche altre nazioni, tra le quali il Giappone.

Non mi riferisco ai recenti e continui test missilistici che i giapponesi vedono passare sulle propri teste, ma ai rapimenti nordcoreani di un gran numero di cittadini giapponesi tra gli anni ’70 e ’80.
Tengo a precisare che questi rapimenti non avvennero esclusivamente in Giappone, ma furono perpetrati da agenti nordcoreani in diverse nazioni asiatiche ed europee, per un totale di migliaia di persone mai più ritrovate.

Quando

Negli anni Settanta alcuni giovani cittadini giapponesi scomparvero misteriosamente da varie zone costiere del Giappone. Le persone scomparse erano giapponesi comuni senza apparente connessione tra loro e solo dopo anni si scoprì la reale natura delle sparizioni.
Sebbene si sospettasse di una matrice nordcoreana, si diffuse in Giappone l’opinione comune che la Corea del Nord non avesse nulla a che fare con le sparizioni. I simpatizzati della Corea del Nord furono i primi a sopprimere queste teorie, tacciandole come mere cospirazioni. Purtroppo il governo giapponese del tempo non prese mai provvedimenti a riguardo e si dovettero attendere più di vent’anni per avere delle risposte.

Perché

Le motivazioni alla base dei rapimenti furono diverse, ma il principale obiettivo fu l’insegnamento della lingua e della cultura giapponese in appositi centri per formare abili spie e lo scambio d’identità delle vittime in favore degli agenti. IIn altri casi si pensa che alcune donne fossero state rapite e date in moglie a membri di un gruppo di terroristi giapponesi con base in Corea del Nord. Quest’ultima ipotesi fa riferimento ai terroristi giapponesi dell’armata rossa che dirottarono un aereo in Corea del Nord nell’incidente “Yodo-go“.
Altri possibili rapimenti potrebbero essere stati mossi dal bisogno di silenziare dei sfortunati cittadini che avevano visto o saputo troppo, diventando un pericolo per le spie.

L’ammissione di colpa coreana

Dopo quasi trent’anni di silenzi e negazioni, le vicende arrivano a un’importante svolta nel 2002. L’allora primo ministro giapponese Junichiro Koizumi avviò una politica di distensione tra Corea del Nord e Giappone e durante una visita all’allora leader Kim Jong-il, quest’ultimo ammise pubblicamente il rapimento di 13 cittadini giapponesi. Dichiarò che quattro delle tredici erano vive, otto erano morte e che per una non era stato possibile confermare l’ingresso in Corea del Nord. All’ammissione di colpa seguirono le scuse e la promessa di avviare un’indagine e punire i colpevoli.
In occasione dell’incontro la Corea produsse anche 8 certificati di decesso che avrebbero dovuto dimostrare la morte di una parte delle vittime. Purtroppo per il dittatore però i documenti forniti destavano più di qualche dubbio; scritti chiaramente in modo frettoloso e superficiale, non convinsero il governo giapponese e le ONG.
Il governo coreano consegnò alle famiglie delle vittime giapponesi anche dei resti di coloro che erano dichiarati deceduti, come nel caso Kaoru Matsuki. A seguito di test del DNA si scopri però che questi probabilmente non appartenevano all’uomo.

L’ammissione di colpa fatta dal Pyongyang sarebbe dovuto essere un atto distensivo, ma in realtà gli si ritorse contro. I certificati di morte dubbi, i resti spacciati per veri e il ribaltamento delle teorie prima giudicate cospiratorie, isolarono ancor più la Corea del Nord.

Le vittime di rapimento ufficialmente riconosciute dal governo giapponese sono oggi almeno 17, quattro in più rispetto alle 13 confermate dal governo coreano. Le otto dichiarate decedute furono Keiko Arimoto, Megumi Yokota, Yaeko Taguchi, Rumiko Masumoto, Shuichi Ichikawa, Toru Ishioka, Kaoru Matsuki, Tadaaki Hara. Cinque ancora in vita Yasushi Chimura, Fukie Hamamoto, Kaoru Hasuike, Hitomi Soga e Yukiko Okudo. A queste si aggiungono Yutaka Kume, Minoru Tanaka, Kyoko Matsumoto e Miyoshi Soga sulle quali la Corea nega ogni coinvolgimento.

Il ritorno in patria delle vittime

In risposta alla richiesta del governo giapponese, il 15 ottobre 2002, cinque vittime (Yasushi e Fukie Chimura, Kaoru e Yukiko Hasuike e Hitomi Soga) poterono finalmente tornare in Giappone e riabbracciare le loro famiglie. Erano passati 24 anni dall’ultimo incontro con i propri cari.

Il permesso dato loro dalla Corea era temporaneo, essendo così obbligati a ritornare a breve. Il governo giapponese però si oppose e, seguendo il volere delle vittime, permise loro di rimanere in Giappone. Inoltre, grazie ad altre visite diplomatiche del premier giapponese in quello stesso anno, fu permesso ai membri delle famiglie delle vittime rimaste in Corea di entrare in Giappone e ricongiungersi a loro.

ll Giappone si produsse attivamente in ulteriori incontri affinché il governo nordcoreano continuasse le indagini e fornisse valide informazioni in merito alle persone scomparse, ma non ottenendo risultati concreti.

Dal 2006 a oggi

I rapporto tra i due paese negli ultimi 20 anni ha visto un alternarsi di alti e bassi. Il governo giapponese guidato da Shinzō Abe chiese più volte ragguagli e informazioni ma non vi fu mai un’ulteriore collaborazione attiva nordcoreana.

La già difficile situazione tra i paesi si aggravò dai vari test missilistici che i nordcoreani fecero (e fanno ancora) negli spazi territoriali del Giappone. Non sono così mancate tensioni e inevitabili sanzioni e limitazioni imposte dal governo del Sol Levante verso la Corea del Nord. Un esempio di queste fu il divieto di approdo di navi nordcoreane nei porti giapponesi o la limitazione commerciale con il Paese.

Unico spiraglio si ebbe nel 2014 con Kim Jong-un, leader nordcoreano succeduto al padre defunto nel 2011, che accettò di indagare nuovamente sulla questione dei rapiti. Così Il 4 luglio 2014, il Giappone allentò molte delle sue sanzioni contro la Corea del Nord dopo i colloqui tra i due paesi. Purtroppo però non portò a nulla e la situazione fino ad oggi rimane la medesima.

Secondo un ultima stima del 12 luglio 2022, le vittime di cittadini giapponesi per mano di agenti coreani sarebbero ben 871 ed oggi il premier in carica Kishida non ha ancora palesato dichiarazioni in merito al da farsi.

I collegamenti con l’Italia

Quel che può sembrare una vicenda tutta giapponese ha invero una portata dal respiro intercontinentale. Si stimano che le vittime di rapimenti nordcoreani furono a migliaia, di ogni nazionalità.

In questo quadro complesso quadro, due eventi videro anche l’Italia coinvolta nelle attività illecite di Pyongyang.

Nel 1970 Doina Bumbea, una ventiduenne rumena, si trasferì a Roma per sposare un italiano. Dopo poco divorziò, si iscrisse a una scuola d’arte romana e nel 1978, secondo quanto dal fratello di Doina, incontrò un presunto esperto d’arte italiano. L’uomo le priomise un lavoro a Tokyo e una prima esposizione a Pyongyang. Doina sparì. Venne poi fatta sposare con James Dresnok, un soldato americano che aveva disertato in Corea del nord nel 1962 e lavorava per Pyongyang come insegnante d’inglese e come attore. Doina morì poi nel 1997 in Corea del nord.

La seconda vicenda che coinvolse l’Italia è legata alla strage del volo 858 della Korean Flight, uno dei più tragici atti di terrorismo commessi dalla Corea del Nord. Nel 1987 il volo partì da Baghdad per Seul, con scali ad Abu Dhabi e Bangkok. Prima dell’atterraggio però il boeing esplose uccidendo ben 115 passeggeri. Secondo le ricostruzioni, l’ordigno all’origine dell’esplosione fu piazzato da una coppia di turisti con passaporti giapponesi scesi al primo scalo, camuffandolo come radio. Si scoprì però che i presunti giapponesi erano in realtà agenti nordcoreaeni con passaporti falsi e Il loro prossimo volo li avrebbe portati a Roma, ma la polizia di frontiera li fermò in Bahrein con passaporti falsi.
L’uomo si suicidò con una sigaretta al cianuro, mentre la donna, Kim Hyon-hui, venne bloccata, arrestata e trasferita a Seul, dove vive tuttora. Quest’ultima si pentì per i crimini commessi ma non dichiarò mai chi li avrebbe protetti una volta giunuti a Roma.

Fonti:
Wikipedia
ilfoglio.it
web.archive.org
mofa.go.jp (PDF)